Il giornale è il mio amore


Alberto Bergamini, l’inventore della terza pagina


di Nunzio Dell’Erba


Figura centrale del giornalismo moderno, Alberto Bergamini ha subìto per molti anni l’ostracismo del silenzio. Eppure è stato autore di molti scoop e l’ideatore della terza pagina. A trarlo dall’oblio contribuisce ora Giancarlo Tartaglia, che in una minuziosa biografia (Il giornale è il mio amore. Alberto Bergamini inventore del giornalismo moderno, All Around, Padova 218, pp. 284) ripercorre il suo itinerario giornalistico ed umano. La sua lunga vita – visse dal 1871 al 1962 – è raccontata dall’autore con piglio sicuro e dovizia di particolari, che si snodano dall’attentato a Umberto I all’avvento del fascismo e alla nascita della Repubblica Italiana.

    Nella sua ponderata ricostruzione l’Autore segue il personaggio nel percorso esistenziale di una passione giornalistica che lo portò a fondare nel suo paese natio L’Eco di Persiceto, a collaborare a giornali di provincia come Il Corriere del Polesine per approdare nel 1898 alla redazione romana del Corriere della Sera. Vi rimase per pochi anni, perché nel novembre 1901 fondò e diresse Il Giornale d’Italia. Esso riscosse subito un certo successo per alcune novità come l’ampio spazio dedicato alla cronaca, l’uso delle illustrazioni e soprattutto l’introduzione della terza pagina, come si ricava dall’interesse rivolto al romanzo Francesca da Rimini di Gabriele d’Annunzio.

    In realtà Il Giornale d’Italia, che si presentòcome il promotore delle più genuine istanze liberali, nacque su iniziativa di Sidney Sonnino e di Antonio Salandra in contrasto alle aspirazioni egemoniche di Giovanni Giolitti. Nei primi lustri del XX secolo, Bergamini appoggiò le posizioni dei suoi mentori e dedicò le sue energie al giornale con così grande “amore” (da qui il titolo del libro) che per alcuni anni superò nelle vendite un quotidiano quotato come “Il Messaggero”. Sebbene il giornale avesse un indirizzo liberale, esso sostenne l’ascesa al potere del fascismo, considerato come un antidoto al dilagare delle violenze e “una sorta di autodifesa della Nazione” contro lo spettro del bolscevismo (p. 155).

    Il volto dittatoriale del fascismo tolse a Bergamini ogni illusione e, per protesta, il 9 dicembre 1923 lasciò la direzione del “Giornale d’Italia” a Vittorio Vettori e l’amministrazione a Emilio Borzini. Nonostante l’iniziale sostegno ai primi governi di Mussolini, il giornale divenne così la bestia nera dei fascisti romani più intransigenti, che nel febbraio del 1924 aggredirono Bergamini e lo costrinsero ad abbandonare la direzione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana.

    Ritiratosi dall’attività giornalistica per quasi vent’anni, Bergamini fu nominato senatore per gli anni 1948-1953. Riprese così l’impegno politico nelle file monarchiche, ma le sue scelte – ormai travolte dal nuovo impianto istituzionale repubblicano – lo portarono di nuovo all’attività giornalistica come presidente della Federazione Nazionale della Stampa, di cui l’autore è degno successore.